10

6 04 2019

Ricordo che, all’alba del 6 aprile, contemplando la distruzione di poche ore prima, in molti ci dicevamo “prima di dieci anni non se ne parla”. Dieci anni sembrava un tempo lungo, lungo abbastanza, per dirsi di pazientare e prepararsi al duro periodo che ci avrebbe atteso. 

Dieci anni è questo tempo qui.

Che è servito al dolore per farsi lucido e affilato come una lama che a volte dimentichi di tenere in tasca, e a volte invece ti sembra di cominciare a saperlo maneggiare.

Da un anno esatto sono andato via, lontano.

Rende molte cose più semplici, ma questa la rende complicata, e davvero dolorosa. 

Mi sono scoperto ad avere voglia di vedere tutti i documentari che sono stati realizzati per la ricorrenza, e davvero non credevo di volerlo fare. 

Sono così orgoglioso dell’estrema dignità di tutti coloro che vi hanno partecipato, della loro forte personalità non comune, delle loro parole nette, così coinvolte e coinvolgenti. Il racconto che grazie a loro si è dipanato è il racconto di tutti noi, è ciò che ci rende una generazione di sopravvissuti. 

Dieci anni è il tempo che ho impiegato a resistere, ribellarmi, manifestare, scarriolare, e poi studiare e lavorare come medico nella mia città. Credendomi sempre uguale a me stesso, e scoprendomi via via sempre più diverso dall’inizio.

Ma è la ricorrenza, a tirarmi via per qualche giorno da ciò che sono diventato, riportandomi a ciò che sono di base insieme a tutte e tutti voi.

Uno che c’era e che oggi c’è ancora. Perché così è capitato, per caso.

A volte è un pensiero insopportabile, e quest’onda lunga di sconforto mi colpisce duramente; so già che continuerà a farlo. 





Ancora

22 01 2017

E’ mattina, mercoledì. Sono andato a dormire sotto una copiosa nevicata che finalmente dopo aver coperto per giorni tutto l’Abruzzo esclusi noi, raggiunge anche la città di L’Aquila. E tutto sommato sono contento non poco, visto che la neve io la adoro. Anche quella piccola precarietà dell’avventurarsi in macchina per andare al lavoro, con un piccolo rischio che credi calcolato. Esco di casa però con un’ora di anticipo, sapendo che dovrò lavorare non poco per liberare l’auto dal garage dove, stupidamente, l’ho lasciata la sera prima. La neve mi arriva alle ginocchia. La macchina non si smuoverà da dov’è senza mettere mano alla pala. E lo faccio, sotto la neve che copiosamente continua a cadere, ma da solo non riesco a liberare i 100 metri di salita in modo sufficiente a non toccare con il fondo. Dopo un’ora desisto, mentre il resto del condominio non partecipa al mio sforzo, che resta, così, solitario ed improduttivo. Chiamo il 112, mi qualifico, spiego la situazione e con uno dei loro mezzi, poco dopo vengo accompagnato in ospedale. Comincio quindi a lavorare, l’atmosfera è quasi divertita per l’eccezionalità dell’evento in sé, e l’impresa che ognuno di noi ha fatto per arrivare a lavoro. Una mattinata aquilana come tante altre. Mentre mi trovo in risonanza ed ho appena iniziato l’ultima fase di uno studio di perfusione cerebrale, nel momento più delicato e conclusivo dell’esame, una breve e forte scossa di terremoto ci gela il sangue. Siamo al pianterreno. Sopra di noi abbiamo tre piani di edificio inagibile, ancora, dall’aprile del 2009. Porto a termine l’esame, mentre tutti affluiscono dalle mie parti, che lavoro nei pressi di una delle vie di fuga. Il paziente non si è accorto di nulla, viene fuori dalla sala. Nel frattempo è già cominciato il parapiglia del “che facciamo, continuiamo?” mentre la paziente successiva, che già aveva chiesto di non fare l’esame, poi ci ripensa e chiede di farlo per non restare ancora a digiuno. Con pochissima convinzione che si tratti della scelta migliore, ed in mancanza di direttive sul da farsi, iniziamo anche con lei. Poi la seconda scossa, davvero notevole, ci fa interrompere tutto. Inizia il giro delle chiamate di rito, come stai dove sei, tutto bene, dove andate, restate fuori. Ma fuori nevica, già. Eppure io dentro non voglio stare, l’ospedale è un edificio sul quale non nutro fiducia di nessun tipo. Si sospendono le attività, mentre poco più tardi arriverà l’ordinanza del Prefetto che in via precauzionale impone di sospendere tutte le attività ordinarie e di restare aperti solo per le emergenze. I reparti cominceranno nei minuti successivi a dimettere i ricoverati in buone condizioni, mentre le sale operatorie hanno già annullato gli interventi previsti e svegliato i pazienti già in anestesia. La paura è via via maggiore, le notizie non tranquillizzano, mentre scopriamo di essere sempre più vicini all’epicentro di un terremoto che come sospettavamo, non ha ancora finito di dire la sua. E passata circa un’ora e mezza, eppure siamo ancora in reparto tutti quanti, non possiamo andarcene all’aperto perché nessuno si è ancora avventurato a riprendere i pazienti che erano stati portati da noi. Arriva anche la terza scossa maggiore; i nervi mi abbandonano definitivamente.

Ci vuole ancora un po’ per organizzare le prossime ore, ma poi alla fine riusciamo ad allontanarci tutti dall’ospedale, ma sono in cima alla lista di quelli che verranno contattati in caso di emergenza. Tornato a casa da meno di un’ora, mi chiamano per un’urgenza. E ritorniamo in ospedale, io e la collega che ospiterò da me per i due giorni seguenti. Io ci metto la casa, lei la macchina. Sono le sei del pomeriggio quando riapprodiamo finalmente a casa mia. Siamo esausti, è stata fino a quel punto una giornata semplicemente assurda. Ragioniamo daccapo di scosse, casa mia, casa tua, luoghi sicuri? Storicamente lo sono stati, ma lo resteranno? Sembra impossibile che gli ultimi sette anni siano annullati nel giro di una mattinata. Siamo quasi al punto di partenza. In una situazione simile a quel 30 marzo 2009, sei giorni prima della strage, quando ci siamo effettivamente sentiti sull’orlo di un evento più grande, che poi, puntualmente, non si è fatto attendere. Cosa è cambiato in questi anni? In cosa siamo migliorati, ci siamo davvero protetti? Ammesso che così sia stato, e non lo credo, ci comportiamo come se nulla avessimo imparato, se non un’inguaribile diffidenza nei confronti del nostro territorio, di ciò che ci riserva la notte. Perciò comincio con le uniche cose che mi sembrano sensate; preparo un borsone che da domani resterà in macchina, con mutande, calzettoni, un paio di scarpe calde e comode, pantaloni sportivi, maglioni di pile, roba che normalmente usi per andare a sciare. Una giacca a vento, un phon, asciugamani, roba che posso usare per restare fuori casa, per restare al lavoro continuativamente per due – tre giorni, se e quando servirà. La commissione Grandi Rischi dal canto suo, stavolta ci allarma in modo eloquente, ventilando l’attesa che possano verificarsi terremoti di magnitudo fino a 7.0, altri provano a ridimensionare, a tranquillizzare, sedare questo panico lucido che serpeggia da settimane e che mercoledì è sbottato come un bubbone. E’ il caos, quando ti senti così piccolo, impotente e privo di conoscenze – come tutti, del resto- per capire cosa stia effettivamente accadendo e come potrebbe evolvere. Ma è sopratutto, una storia già vissuta. Tutto ciò suona molto sinistro, ma a prescindere da questo, è in ogni caso un grosso passo indietro. Ci muoviamo a vista, aspettando e sperando. Altro non possiamo fare. Ancora.





LOOP

15 05 2016

MAX

Per molte volte, a più riprese, sono riuscito a tirare tutto indietro, a metterci un tappo; a distrarre la mente eludendo la naturale inclinazione a pensarci ancora, e ancora su. E per ognuna di queste volte, a malincuore, dopo aver indugiato sui miei ricordi, sulle mie riflessioni che rischiavano di essere infinite e dolorose, ci sono riuscito; riuscirci non significa vincere, lo so bene, ma abbiamo il dovere di non aggravarci lo spirito; non è forse così che si va avanti?

L’anno appena trascorso è scivolato via in questo continuo oscillare tra il ricordo (spesso divertito), il rimpianto, e lo sforzo (improduttivo, nel mio caso) di provare a seguitare, indovinando un percorso ed una strategia che non intuisco più. Manca la guida, la fonte d’ispirazione, lo sprone quotidiano e costruttivo che lavorare insieme ha rappresentato fin dal primo giorno. E so anche che sarebbe una causa d’irritazione, trovarci a fare a quattr’occhi questo discorso, se solo fosse possibile. E’ capitato invece di incontrarci in sogno, di chiacchierare di lavoro, della nostra città, di futuro, il nostro, come se il tempo si fosse fermato. Come se fossimo ancora in viaggio verso Camogli, quando  con la mia macchina andammo insieme al raduno annuale di neuroradiologia interventistica. Mi ha fatto così tanto piacere averlo creduto possibile per la durata di quei sogni.. Che qualcosa avranno pure voluto significare, giusto?

La realtà è che sono domande senza una risposta, senza un interlocutore ancora capace di darvi risposta. La verità è che quello smarrimento iniziale, che intuivo un anno fa, oggi è una certezza. E tutto quello che abbiamo fatto insieme oggi è, nella mia mente, un appartamento disabitato con le lenzuola sopra ogni suppellettile, a proteggerle dal deterioramento del disuso. Dalla mesta banalità della polvere, che non vorrei vedere depositarsi su una storia così. Mi dispiace non poter essere di conforto. Non poter dire che quelle promesse di perseveranza fatte un anno fa, ad oggi abbiano prodotto qualche frutto tangibile, qualche risultato produttivo. Sono stato abituato troppo bene. Non è comune avere qualcuno che quotidianamente, in modo vulcanico, ti fornisce spunti di lavoro, ricerca, studio ed approfondimento con la semplicità a cui sono stato abituato. E l’assestamento richiede tempo. Qui per ripartire bisogna prima farsene almeno una ragione, di quanto è capitato. E la demoralizzazione per tutto quello che si è interrotto, per quanto cerchi di ignorarla, è ancora troppa.

Varcare quotidianamente la soglia del nostro comune posto di lavoro, non aiuta. Più di tutto non aiuta constatare quanto le cose stiano cambiando, restando apparentemente immobili. Sarà anche per questo che ho così voglia di andare, chiudere tutto, e ricominciare altrove. Portando il buono che sono riuscito ad assorbire dalla vicinanza ad un Maestro così. Da lontano potrò raccontarmi che sei ancora lì, al lavoro, ad istruire nuovi piccoli me che, come me, saranno rapiti al primo contatto da un’intuizione, da una sensazione epidermica di valore umano e fascino per ciò che fai, per come lo fai. Del resto non tutto ha senso, né a tutto lo si può trovare; certe cose sono solo ingiuste e dolorose, e il massimo che si possa fare è cercare di non rimuginarci troppo su, a meno che non ci si senta momentaneamente in grado di farlo, nelle occasioni in cui ci è consentito prenderci un attimo per fermarci e commuoverci. E poi ripartire di nuovo. Muoversi da lì per andare avanti sarebbe l’ideale, darebbe a tutti questi discorsi un senso migliore, meno demoralizzante. E perdonami se ho trascorso un anno muovendomi in circolo, per ritornare proprio oggi al punto di partenza.





Massimo

17 05 2015

MAXProvo a mettere qui un po’ di pensieri e ricordi, perché in fondo questa storia va spiegata e raccontata. Perché voglio ricordarla così come l’ho vissuta in questi anni, che sono stati quasi fin da subito, dall’inizio, una lunga attesa, una lunghissima corsa contro il tempo. E ormai la corsa è finita, Prof. Nel 2006, studente al terzo anno di medicina, mi iscrissi ad un seminario che mi interessava parecchio, ché volevo fare il neurochirurgo e lì si parlava di aneurismi cerebrali. Una parte del seminario era riservata al trattamento degli aneurismi con tecniche endovascolari, di radiologia interventistica, e io manco sapevo cosa fosse. Arrivasti a seminario iniziato, poco prima che toccasse a te: casco della moto in mano, giubbotto di cuoio; sembravi il fratello maggiore di Stefano Accorsi, pensai. Beh, l’aria era un po’ quella.. Sta di fatto che nel giro di un’ora mettesti in campo una lezione elegantissima, e per me la neurochirurgia finì nel cesso; ho sempre fatto scelte drastiche, impulsive, sopratutto riguardo le cose più importanti, gli snodi della vita. E lì ho fatto la mia scelta; ricordo che mi informai, che chiesi in giro cosa bisognava fare, quale percorso, per arrivare a fare ciò che ci avevi mostrato, e fu così che scoprii che avrei dovuto fare il radiologo. Diedi pochi mesi dopo l’esame, e cominciai a frequentare il reparto, ma fui assegnato a seguire un settore che era quanto di più lontano potesse esistere da quello di cui tu ti occupavi, e ti persi pure un po’ di vista, anche se tutti sapevano che ero lì per tutt’altro. Passarono tre anni, durante i quali diedi anche l’esame di neuroradiologia, e lì scoprii che ti ricordavi il mio nome (ci eravamo mai parlati, prima?) e che forse sapevi qualcosa di me, dei miei interessi..non lo so, non l’ho mai saputo, e a sto punto non lo saprò mai. Arrivò il momento di preparare la mia tesi, e fu lì che mi decisi, e credendo di essere un perfetto sconosciuto, preoccupatissimo, chiesi di poterla fare con te. Me lo ricordo come fosse ieri: un sorriso, ti sedesti su un tavolino vicino alla TAC e rivolto verso di me dicesti “bene, mi fa molto piacere, Federico, voglio investire su di te”. Una frase fatta, sospettai, devo essere onesto. Ma allora nemmeno ti conoscevo personalmente, avresti potuto essere uno dei tanti, che però diversamente da molti faceva un lavoro figo. Ho capito nel giro di poco, quanto c’era di più. Qualche settimana più tardi ero in viaggio col mio camper, da post-terremotato, per un week end a Peschici, e decidemmo di fermarci su un autogrill a San Salvo. Combinazione, eri fermo lì anche tu. Notasti una lamiera che si stava sganciando da quel cesso di camper che mi portavo dietro, rientrasti per dirmelo, e mi salvasti la vacanza. Tre giorni dopo presentavi al cinema movieplex il tuo primo romanzo, e venni con la mia copia per farmela autografare, tanto ormai ero chiaramente quello che si definirebbe un “fanboy”. La tua dedica ancora oggi è una promessa: “ti ho salvato la vacanza, ma rischi che ti rovino la vita”. Ironico, come sempre. Mi sono laureato il 22 ottobre del 2010. Partii per un week end a Trieste per festeggiare, ed ero sull’autostrada, di ritorno, (il 25) quando mi chiamarono per dirmi cosa era successo. La tua malattia, la sua gravità, insospettabile.. stavi benissimo e fu un colpo per tutti, te compreso. Mi raccontarono che finita la TAC, e conosciuto il risultato, continuasti a lavorare, come se nulla fosse. Ed è allora che, se possibile, da mito sei diventato leggenda. E non ti ho più mollato, maledicendo gli anni persi ad assecondare scelte lavorative che altri avevano preso per me. E’ lì che è cominciata la grande corsa. In questi cinque anni abbiamo cominciato a sospettare che ce l’avresti potuta davvero fare. Certo, morivo di paura ogni volta che dal tuo studio mi chiamavi giù in risonanza per chiedere se c’era posto per te, per un controllo. Se c’era posto. Si, perché uno come te chiedeva sempre il permesso. Così come tutte le volte che chiamavi esordivi con “Federico, ti disturbo? sei in ospedale? volevo chiederti una cortesia – oppure – puoi salire nel mio studio?” come se avessi potuto davvero essere altrove, a pensare ai fatti miei o non avere tempo per aiutarti in ciò di cui potevi avere bisogno, in quelle cose in cui potevo esserti  – stranamente – utile. Insomma morivo di paura, per quello che avrei potuto trovare, al pensiero di ciò che avrebbe significato. E comunque non è mai successo, nonostante tutto. Per il resto, per tanti anni della tua malattia non abbiamo mai parlato apertamente, ovviamente sapevi che sapevo. E quando pochi mesi dopo divenne possibile operarti, la sera prima di partire per andarti a ricoverare tenesti un concerto, al termine del quale comprai il CD. Non ci siamo salutati di persona, ma ti ho inviato un messaggio, dicendo che l’autografo me l’avresti fatto al ritorno, facendoti l’in bocca al lupo e che facevo il tifo per te. Ancora conservo la risposta, e la conserverò per sempre: “grazie Fede. sei grande. a presto”. Le settimane che seguirono furono scandite dall’arrivo di tue notizie da quegli amici e colleghi che vennero a trovarti in ospedale. Che ci raccontavano di quanto fossi forte, che tutto era andato bene. Che la corsa poteva continuare. E continuò. In questi anni ne abbiamo fatte davvero tante: articoli, lavori scientifici, capitoli di libri, congressi, mi hai inserito dovunque potevi inserirmi, ti ho indegnamente sostituito tutte le volte che non potevi essere da qualche parte. Onorato e preoccupato al tempo stesso, ogni volta che mi annunciavi un impegno che volevi affidarmi, dicevi di volerlo fare perché cercavi di inserirmi, di farmi fare un curriculum degno, che un giorno ti sarebbe piaciuto farmi avere un posto da ricercatore. E sarebbe piaciuto anche a me restare legato al tuo nome, alla tua umanità nel lavorare, al tuo modo di incazzarti ed avere sempre fretta di fare tutto per il meglio. Mi avrebbe fatto piacere seguirti e crescere sotto il tuo controllo e la tua guida. Sorrido se penso a tutte le volte che ci mettevi ansia perché eravamo lenti, disattenti, e non vedevamo i pericoli che tu vedevi; anche in sala angiografica. Quando ti ho visto prendere in mano la situazione e salvare tante vite. E questo ti ripagava di tutto. Di tutti gli anni che hai dedicato a questa disciplina, a tutto quello che hai costruito con le tue mani a L’Aquila. Quei momenti davano a te e danno a noi oggi la forza di sopportare tutte le volte che invece, nonostante l’impegno, le cose vanno male. Anche se a costo di una tristezza che negli anni si accumula a tristezza. Ho sempre pensato che quel velo di tristezza che traspariva nei tuoi modi fosse il fardello di cui, inevitabilmente, un medico della tua umanità si fa carico nel corso di una vita in cui l’impegno non sempre può bastare a far andare bene le cose. Ci vuole culo. E tu non ne hai avuto quanto ne meritavi. Gli anni passati hanno segnato un lento, quasi impercettibile declino fisico. Ma la testa c’è stata sempre, fino alla fine. Solo due settimane fa, dall’ospedale, ancora a metterci fretta per consegnare dei lavori, che quando me li hai affidati dovevano essere tra i tanti che avremmo ancora dovuto fare insieme e che già mi avevi preannunciato. E invece saranno gli ultimi. Lo sospettavo, che sarebbe andata così, e difatti non avevo nemmeno voglia, per la prima volta, di portarli a termine. Sono fatto così, i romanzi che mi piacciono di più a un certo punto li leggo troppo lentamente, per paura del momento in cui arriverò a leggere l’ultima riga e saranno finiti. Per lo stesso motivo non ho mai voluto finire di leggere il tuo perché farlo, nel 2010, mi faceva pensare che – non lo so – finirlo subito sarebbe stato come affrettarmi inutilmente prima del tempo. Adesso posso leggerlo, ma già so che lo farò ancora più lentamente che se ci fossi ancora; leggerò il tuo romanzo considerandolo, in ogni riga, una piccola dose di ricordo e ci ricorrerò tutte le volte che ne sentirò il bisogno. Mi sembra impossibile che tutti noi non potremmo più mandarti a qualsiasi ora le foto di un caso assurdo, di cui non capiamo nulla, e restare in attesa della tua risposta, che per noi era, a ragione, oro colato. Mi sento, ci sentiamo, spersi, disorientati. Ieri notte al pronto soccorso eravamo in tantissimi, e mentre la città festeggiava l’adunata degli alpini eravamo al lavoro. Ho pensato che la cosa migliore che possiamo fare è applicare ciò che hai fatto in tempo ad insegnarci, e difendere quello che hai costruito. Ma non mi sento in grado. C’era ancora troppo da farci insegnare, e meritavi di avere il tempo necessario per farlo e per goderti tutto il resto. In questi giorni ho ricevuto tanti messaggi, da persone conosciute per lavoro e poi perse di vista, che hanno pensato a me sapendo (come?) quanto fossi legato a te; e mi sembra assurdo, dal momento che ho vissuto questo rapporto umano e professionale tendendomelo sempre per me, ché non volevo farmi parlare dietro, ed assurdo perché c’è chi ha più diritto di me di addolorarsi, in modo e per ragioni diverse, ed è a loro che penso oggi.

L’altroieri mi sono deciso poi a venirti a trovare un’ultima volta, per provarti a dire grazie per tutto quello che hai fatto, che hai significato e significherai sempre per me. Se ce l’ho fatta, è stato solo grazie ad Alessandra Splendiani, che era con me.. ed ha avuto più coraggio di me ad iniziare un discorso che mi sembrava crudele farti, e che comunque spero tu abbia potuto comprendere ed apprezzare nel suo valore umano. Il mio rapporto con te è stato costellato di cose non dette a parole, di momenti in cui avrei voluto dire quanto leggendario sei per me, che non ho detto perché non volevo sospettassi che fossi un leccaculo.. ché quelli lo so, ti sono sempre stati sul cazzo. Sento, però, che tutto quello che non ti ho detto mai a parole, in qualche modo lo hai saputo. Lo spero tanto. Non ho mai nemmeno avuto il coraggio di darti del tu, anche se mi sarebbe piaciuto togliere quella distanza, quella formalità. Sta di fatto che ci lasci molto, e che a noi resta il debito che mai avremmo potuto saldare con te. Non abbiamo avuto nemmeno, però, il tempo di provarci. A pensarci bene, non avresti potuto chiamarti in altro modo: eri davvero il Massimo che potevamo chiedere. Ciao Prof, spero che esista un aldilà, avremo un sacco di cose da dirci, e tu nuove canzoni da farci ascoltare.

Ti voglio bene.





CAMBI DI PROSPETTIVA

4 01 2015

nevsky-prospektDopo mesi trascorsi nei quali avevo persino quasi dimenticato di averne uno, qualche giorno fa ho fatto ritorno sul mio blog, per ridare un’occhiata a questo diario pubblico. La sua personalità mi appartiene, ma mi ci riconosco sempre meno. Sono cambiate così tante cose del resto, che sarebbe impossibile pensare di andare avanti nello stesso modo. Non mi occupo più, e per fortuna, delle vicende aquilane, a quest’ora sarei probabilmente impazzito del tutto. Dagli ultimi resoconti pubblicati negli anni passati ad oggi alcune cose sono cambiate, cioè tornando a L’Aquila trovereste tracce di ricostruzione materiale, qualche palazzo tornato alla luce, spogliato dalle impalcature e nuovi cantieri al lavoro nel centro storico. Ma ad ormai quasi sei anni dal terremoto, la vera sostanza delle cose non è affatto migliorata, nonostante qualcosa sia appunto tornato integro. Manca l’insieme, manca, ancora, la città. E sento che ci siamo tutti abituati a questo stato di cose. Io stesso ho cominciato il conto alla rovescia, in attesa del momento in cui potrò (se ne avrò occasione) finalmente andarmene da qui.
Servirebbe considerare, a questo punto, un cambio di destinazione d’uso di questo blog, visto che nel frattempo sono cambiate così tante cose ed è cambiata così tanto la mia prospettiva d’osservazione, che probabilmente più che considerarne un cambio di destinazione d’uso dovrei contemplare l’idea di una chiusura a tempo indeterminato. Del resto, sull’intestazione di Stazione MIR la scritta recita “L’Aquila e il resto, benvenuti nel blog di Federico D’Orazio”.
Ecco, la verità è che da troppo tempo, perché sia ancora possibile riprendere il cammino interrotto, Federico ha messo tutto “il resto” al centro della sua attenzione quotidiana. E L’Aquila è ormai uno sfondo, un fondale sempre più distante, sbiadito e anche un po’ sgradito delle mie giornate. Qui si sopravvive da troppo, e per noi è il tempo di vivere. Non interpreto questa consapevolezza come la constatazione di un impoverimento, anzi. E’ piuttosto un’apertura mentale. Ecco, sento di aver spalancato le porte al mondo, in attesa di vedere che succede, e per ora va bene così; è già questo, di per sé, fonte di un senso di attesa positivo e pieno di aspettative.
Del resto un blog è necessariamente una rappresentazione di chi lo anima, e se cambio io cambierà il blog. Cambierà chi lo legge. Cambierà per forza tutto, considerato che se prima scrivevo perché speravo qualcuno leggesse, nel futuro probabilmente, se scriverò sarà perché ho semplicemente voglia e bisogno di farlo. Di cosa, poi, si vedrà.

 





Torneremo a cose fatte

3 04 2013

L'Aquila (AQ), stemma di Carlo V con aquila bicipite all'ingresso del castello cinquecentesco

 

Noi Aquilani, di bilanci, ne facciamo in continuazione; ma l’Italia, per come la percepisco io, nella migliore delle ipotesi, ci ha “riposizionati” nelle graduatoria delle cronache al livello di periodico aggiornamento. Annuale. Ogni 5-6 di aprile negli ultimi anni si è tornati qua. I primi anni, in forma massiccia, con i camion delle radio e l’immancabile furgoncino Volkswagen metallizzato, col parabolone sul tetto, di SKYTg24. Poi, con presenze via via minori. Quest’anno, magari, avremo un paio di servizi al Tg della sera, con qualche numero snocciolato, per fare un bilancio a quattro anni. Con la sola eccezione di PresaDiretta e Riccardo Iacona, che riescono sempre a raccontarci fuori dalle ricorrenze con un dettaglio ed una preparazione che restano ineguagliate nei media nazionali.

Per noi, l’arte del “bilancio”, materiale ed affettivo, è un continuo e quotidiano esercizio mentale. A volte, mentre state per uscire di casa  per fare due passi e prendere un po’ d’aria (fredda!) le uniche due ipotesi in gioco (centro storico o centro commerciale?) si riducono sempre ed invariabilmente, nonostante tutto, ad una sola. L’unica possibile. Centro storico.

Vi mettete in macchina, vi fermate nel traffico, arrivate in centro e cominciate la rassegna. Ogni volta con spirito differente. Ci sono quelle volte che pensi, mentre stai arrivando, “andiamo a ricontare i sassi”. E quelle volte che  basta una transenna in meno, una demolizione in più o un cantiere minimo in più, a farti pensare che qualcosa si sta, lentissimamente, muovendo. Dai, ce la possiamo fare, andiamo incontro alla bella stagione, i lavori saranno facilitati. Magari, stavolta, qualche affresco si salva. Qualche casa verrà riabitata. Magari un pezzettino di qualche vicolo tornerà vitale.

Ovviamente le deduzioni appena citate variano a seconda dello spirito del momento; possono essere di segno opposto ed ugualmente valide al compimento del successivo transito per la stessa strada, in un’ altra occasione.

Tutto ciò avviene in una cornice decadente, come potrete ben immaginare, ma comunque più o meno sempre popolata.

E’ talmente forte il desiderio di vivere un entro storico con l’abitudine che prima tutti noi avevamo, mai abituati a fare vita di quartiere e tantomeno di periferia, che ogni volta che ci si reca in centro, si incontra sempre qualcuno. Purtroppo, sono incontri di stile differente da una volta. Se un tempo, anche nelle ore più tarde, bastavano poche persone lungo il Corso principale a fare un gran vociare di vita, oggi anche con un numero maggiore di persone in circolazione il silenzio regna. Si entra in città chiacchierando, e subentra involontariamente dopo pochi metri, il silenzio. Tutt’al più si parla a voce bassa. Si passeggia come quando si è al cimitero; il chiasso non sta bene. Può sembrare un paragone eccessivo, ma provate a farci caso, se passerete per sbaglio di quì. Non noterete significative differenze.

Ad aprile, poi, la città trasuda lutto in ogni angolo. Spontaneamente. Tornano gli stendardi della processione del venerdì Santo, gli stessi che nel 2009 furono rimossi a settembre, gli stessi rimasti impigliati in alcuni casi nei puntellamenti messi in fretta dai Vigili del Fuoco di tutta Italia con una bravura da veri maestri d’ascia. Quei manifesti mi inquietano, mi mettono addosso un senso di morte che rifuggo.

Così ci prepariamo anche quest’anno alla fiaccolata della notte tra 5 e 6 aprile. L’anno scorso non andai per la prima volta. Quest’anno non so. Certo, la città sarà piena di una folla silenziosa e composta. In quella notte potrei sentirla vicina, la mia gente. Dimenticherei che anche tra loro c’è una moltitudine di aquilani che ancora pensano che se oggi ci fossero ancora Bertolaso & Berlusconi al loro posto le cose sarebbero andate diversamente.Quelli che se avessero reagito con noi all’inizio allora sì che forse qualcosa sarebbe andato diversamente. E quelli ( forse gli stessi?) che hanno affittato i loro alloggi del progetto CASE, quelli che li hanno occupati pur abitando nella casa al mare. Quelli che in centro non li incontri mai, che le vetrine della città le hanno sostituite con quelle del centro commerciale e per loro non fa differenza. Anzi, forse è pure meglio, perché non paghi il parcheggio e pure se piove non ti bagni, e tutto è a portata di mano, e in fondo i negozi sono quasi gli stessi, non è cambiato granché.

Quelli lì, possono aspettare anche una vita, so che non gli peserebbe.

Quelli come me dopo quattro anni sono stati fiaccati, la protesta per le strade non gli va più perché anche quella li ha delusi. E quando facciamo due passi in centro almeno una volta la settimana, e ci sembra tutto fermo o troppo lento per i tempi di una vita normale di un uomo, ci viene la tentazione di andare. Con la promessa che torneremo. Ma tra quindici anni, magari. E comunque solo a cose fatte.

Buon anniversario.

Share





LA NOSTRA UNICA VITA

7 01 2013

Vorrà dire qualcosa: è quasi un anno che non scrivo più nulla, e se lo scopo di questo blog fosse tenere una sorta di registro sui passi avanti compiuti dalla mia città, potrei tacere ancora a lungo.

Fortunatamente, noi non restiamo altrettanto immobili. Anzi, forse, raccontare quanto può accadere in dieci mesi di una vita normale può rendere ancora più chiaro quanto sia scollata la vita della città dalle vite delle persone che quella città la dovrebbero fare.

Perciò un breve ma significativo elenco di fatti avvenuti: sono entrato nella Scuola di Specializzazione in Radiologia, lavorerò qui per cinque anni, ricevo uno stipendio di tutto rispetto; e (cosa più importante) sono un medico Aquilano che lavora a L’Aquila. Da cinque mesi la mia ragazza è la mia compagna. Abbiamo una casa in affitto, che è il nostro castello. Abbiamo una vita insieme.

La mia vita, quindi, si è rivoluzionata nel vero e più profondo senso del termine; è un’esperienza comune, capita ogni anno a migliaia di persone, ma quando capita qui a L’Aquila, se ti fermi a pensarci, vedi il tuo “quadro” cambiare in una cornice sempre uguale a se stessa. Tu evolvi in un ambiente che rimane quasi fermo, che si modifica con un ritmo diverso dal tuo. Manca armonia evolutiva. Ce ne eravamo già accorti, con un agghiacciante sconforto ancora vivo nella memoria di ognuno di noi, scoprendo l’immobilità imposta alle nostre vite in una città improvvisamente ferma, nella distruzione dell’immediato post-terremoto. Eppure ancora oggi, i più fortunati di noi (me compreso), hanno riperso il corso delle loro vite con un ritmo ed una velocità che non riescono ad essere eguagliati dalla nostra città; non la vivo bene, questa situazione.

Puoi fare miracoli, in un certo senso; mancherà sempre qualcosa; e qualcosa di grosso.

Puoi iniziare una nuova vita davvero adulta, ma c’è sempre un freno implicito, imposto dall’esterno.

Qualche giorno fa qualcuno aveva postato su Facebook una foto di Piazza Palazzo, che risaliva ad un gennaio ante-terremoto (esattamente quella qui riportata); L'AQUILA Piazza Palazzo nulla di più che uno scatto nel quale è rimasto immortalato un momento davvero insignificante (nella mente, all’epoca, di ognuno di noi), e niente di diverso dal “memento” a cui spesso ci si abbandona, tra Aquilani.

Ho immaginato, allora, di immergere in quell’immagine, l’io che sono oggi; di camminare, nel freddo di Gennaio verso la torre del Palazzo, annusando appena svoltato l’angolo del Convitto Nazionale l’odore meraviglioso che emanava ogni mattina il pane caldo del forno di Prata dalla vicina Via Patini.

Alle nove del mattino, magari; quando la nostra medio-borghese città di provincia (eppure capoluogo) ancora si permetteva il lusso di essere sonnolenta. E quel transito discreto di persone che, inconsapevolmente, potevano godersi lo spettacolo della normalità della nostra L’Aquila bellissima, pur se perfettibile. Ma allora così vicina alla perfezione, se paragonata a ciò che ne resta oggi.

Quando compi questo sforzo d’immedesimazione, te ne accorgi. Stai vivendo una vita che in qualche modo non è tua. Che, anzi, è la tua; ma semplicemente non avrebbe dovuto esserlo.

Qualche cosa sta pure cambiando, anche nel centro storico. Alcuni cantieri sono partiti, alcune demolizioni sono cominciate, sia dentro che fuori dalle mura della città. Ed una speranza che qualcosa stia partendo ce la voglio vedere. Ma c’è un vuoto enorme da colmare, noi siamo chi più chi meno in corsa, e L’Aquila sta appena cominciando a muovere i primissimi, insicuri e malfermi passi.

Vorrei che fosse chiaro a chi ci amministra che ogni esitazione, ogni ritardo, ogni volta che ciò che poteva essere fatto ieri viene rimandato a domani, la distanza tra noi e la città si dilata rischiando di spezzare l’elastico (o il tirante) che ancora, nonostante tutto, ci tiene uniti.

Io voglio vivere il momento in cui torneremo a camminare con la nostra città con un passo all’unisono. Ma non potete chiederci che per farlo, (forse, tra vent’anni) noi nel frattempo si resti fermi. Là fuori c’è la nostra unica vita.

Share





FINCHE’ AVREMO LA SUFFICIENTE PAZIENZA

29 02 2012

Et voilà, sono a C.A.S.A.

Dopo una sosta all’elettrauto causa due mesi di immobilità della mia macchina, ho ripreso il contatto con la mia città-territorio(estesissimo, ormai) prima di rituffarmi da domani nel “jam” della routine lavorativa. Commissioni da sbrigare, saluti da fare, contatti da riprendere. Giravo (lentamente incolonnato nel traffico di sempre), riscoprendo angoli del mio cielo.

Chi mi ha visto dice che lo facessi con espressione felice. Ed è vero, i due mesi trascorsi mi hanno donato uno stato di grazia evidente, di cui io percepisco gli aspetti esteriori ed interiori. Torno a casa con nove kg in meno ( a Parigi si cammina, non si è costretti a salire in macchina per andare da A a B), mi sento più reattivo e contemporaneamente disteso. Vigile, senza essere sull’attenti. Neurologicamente ristorato, decisamente (più) orientato. Con altrettanta nettezza non posso non notare che qui non c’è stato nessun cambiamento tangibile. Anzi, si annusa fin troppo chiaramente che si sta per abbattere su di noi la nuova ed attesa sciagura delle elezioni amministrative, e che quindi l’unico cambiamento possibile minaccia di dimostrarsi, a brave, un buco nell’acqua che rischia di essere l’ultima delusione. Quella definitiva.

Basta un giro su Facebook, per averne la prova. Articoli scritti dalla solita parte di faziosetti-giornaletti web locali dietro “imbeccata” dei maggiori candidati locali. E scopro che (le combinazioni, alle volte!) dopo tre anni, è pronto il “Piano Strategico” per la ricostruzione del centro storico. Giustamente c’è chi nota quanto l’aggettivo sia sibillino. Strategico per chi, non c’è bisogno nemmeno di starselo a chiedere, visto che la congruenza temporale con le prossime elezioni non può essere nemmeno lontanamente un caso. E chi sostiene il contrario offende la sua intelligenza, prima di quelli a cui lo racconta. Dopo tre anni finalmente sembra sbloccata anche la pratica per la ristrutturazione del mio condominio inagibile ed ora siamo da questa settimana tutti affaccendati nel preparare pacchi, imballare vita ormai congelata ad un’altra epoca, in attesa di poterla domani dischiudere nuovamente nel giorno di un’alba futuribile e forse davvero futura.Quindi, se vai come ho fatto oggi, a casa tua rischi anche di incontrare qualche vicino di casa che finalmente torna per fare qualcosa di utile, e non solo per contemplare la distruzione e l’abbandono.

Dopo tre anni finalmente sono (quasi) tutti usciti allo scoperto con i loro “endorsement” nella marea montante di liste civiche candidate al riscatto, alla rinascita, a rimettere ali alla nostra Aquila zoppa perché possa “tornare a volare”. Figura retorica diffusissima da queste parti sin dalla prima ora post-sismica, non posso fare a meno di mettere per iscritto quanto la trovi patetica e vuota. Perché in primo luogo per “tornare” a far qualcosa, bisogna assolutamente che quella tal cosa (e nel nostro caso si tratta di un volo, per di più rapace) la si sia fatta anche in passato. E L’Aquila, diciamocelo con tutta onestà, non ha mai (a memoria d’uomo) spiccato alcun volo. Questa è sempre stata una terra di “decrescita felice” o meglio (tutto sommato) serena; negli ultimi anni la serenità l’ha via via persa, fino a dimenticarla del tutto da tre anni a questa parte.

Dunque, questo è il punto di partenza.

Su cui si sono sedimentati tre anni di impegno civico di una parte della cittadinanza, mentre altre porzioni di società partivano per la tangente, chi iniziando seriamente a pensare di levare le tende verso lidi più amichevoli, chi profittando a piene mani degli aiuti a pioggia che venivano inviati dallo Stato a tutti quelli che avessero sufficiente scaltrezza di approfittarsene. Anche se da subito siamo stati raccontati agli Italiani come gente dignitosissima, è inutile negare di cose indegne da parte di aquilani di ogni rango se ne siano viste, e tante. Atti di autentico accattonaggio del più basso spirito, e furbizie più elaborate e redditizie da parte dei soliti, prevedibili, ben introdotti. E condanne levate con sdegno, altrettanto qualunquista, verso chi queste cose le denunciava; che veniva puntualmente tacciato di essere parte ed incarnazione stessa dello spirito del pettegolezzo locale, di quel “dice che” che sembra davvero l’unica cosa incrollabile da queste parti.

Mi rendo conto quanto sia impossibile e forse inutile tentare di riassumere tre anni trascorsi con la prospettiva di chi ci ha pensato immergendosi in una vita finalmente normale, anche se a scadenza. Ma lo scopo del mio scrivere è fare il punto, prendere il fiato e prepararmi a questa lunga permanenza a casa.

Vedo da un lato cittadini frammentati nel concretizzare il loro impegno civile in ambito politico da candidati, e credo che questa divisione sia il miglior favore che si potesse fare ai vecchi interpreti della politica locale. Vedo una stanchissima armata bracalone che è la nostra amministrazione uscente avere addirittura l’ardire di ripresentarsi alla prossima tornata come se nulla fosse stato dei suoi marchiani errori del passato, nonostante siano stati a più riprese ammessi e poi negati, in una continua altalena tra verità e menzogna che è quanto di più deleterio ed insopportabile per una città intera alla ricerca di un punto di senso comune dal quale ripartire. E vedo tanti che aspettano, in disparte e al tempo stesso candidati, che siano tutti gli altri a sbagliare per consegnargli la vittoria del prevedibile secondo turno nelle loro mani, senza fare alcuno sforzo ideativo da sottoporre al vaglio del popolo “sovrano” (che lo ridiventa però, solo ad ogni tornata elettorale e poi la sua sovranità deve dimenticarla fino a nuova interpellanza). Non so, ma le premesse per l’ennesimo fracasso improduttivo mi pare ci siano tutte, perché le basi di questo prossimo, possibile e a questo punto definitivo (?) fallimento collettivo sono state gettate e rinsaldate con l’inutilità deleteria di questi tre anni trascorsi senza mai incontrarsi davvero. Tre anni passati chi a rimboccarsi le maniche per costruire un’alternativa partecipata dal basso, chi ad accreditarsi per il suo prevedibile impegno politico (o a cercare di restare in sella per il futuro)  e chi, molto più semplicemente (e sono purtroppo la stragrande maggioranza) a farsi, come sempre e in tutta naturalezza, i cazzi propri. Insomma, quì si vuole andare avanti senza essere d’accordo né essersi minimamente parlati di quanto ci lasciamo (o dovremmo lasciare, meglio) alle spalle. A me sembra follia.

Come è folle l’essere felici di tornare ad aggirarsi da queste parti, sperando che abbia senso tra qualche anno, la scelta fatta all’alba del 6 aprile, di restare per essere in qualche modo d’aiuto. Finché avremo la sufficiente pazienza.

Share





Buona la prima

21 01 2012

Il treno ha appena cominciato a muoversi, partendo con una precisione oraria che non smette di stupirmi. Già all’andata, l’avevo preso all’ultimo secondo, pur essendo uscito da casa un’ora e mezza prima della partenza prevista. Lascio Bourg St. Maurice, avvolto da un bianco assoluto e totale, bianco su(nel cielo) e bianco giù. Ha ripreso a nevicare, dopo le bufere incessanti di neve che si erano interrotte solo stanotte, a tarda ora. Il TGV su cui mi trovo è uno di quelli a due piani, ed io ho prenotato sia all’andata, che al ritorno, un posto sul piano superiore. Estremamente silenzioso e veloce, fende la nebbia nevosa che lo circonda attraversando le piccolissime stazioni che incontriamo a tutta velocità, senza fermarsi. Come per il viaggio di andata, i compagni di viaggio sono tutti in tenuta sportiva, con al seguito sci, tavole da snowboard, e per lo più giovani. C’è anche una coppietta di anziani, lei con una pelliccia così vecchia da sottolineare l’età della proprietaria, ed il marito, che evidentemente ancora si ostina a voler sciare, è salito a bordo con gli scarponi attaccati tra loro con dei lacci, avvolti in una bustina di plastica. Vai, nonnetto, anche per stavolta riporti a casa tutti e due i femori intatti(o forse è portatore sano di protesi?). Mentre scrivo, e guardo il paesaggio di fuori, mi rendo conto di quanto mi siano sempre piaciuti i viaggi in treno, specialmente quelli lunghi come il mio di oggi. Sarà che ne ho presi pochi, e sempre tutti su treni veloci. Ma in treno si ha la sensazione di poter gestire meglio l’attesa dell’arrivo. All’andata, per esempio, ho visto  un film che avevo scaricato sul Mac, e letto un po’ quel libro di Sandro Veronesi comprato a Trieste per il viaggio premio di tre giorni subito dopo la mia laurea, e che finora non avevo mai avuto il tempo e la voglia nemmeno di sfogliare.Adesso, invece, che sto tornando dopo una settimana di congresso a Val d’Isère, il libro è già quasi finito, mancano una ventina di pagine, e benché bellissimo ed avvincente, so già che aspetterò a finirlo, come sempre, quasi per il dispiacere di dover lasciare l’atmosfera che descrive e nella quale mi trovo immerso in un modo che non potrebbe essere più pertinente. (nota: il libro è “XY”, e descrive la vicenda di un parroco e di una psichiatra che si trovano coinvolti in una sanguinaria e paranormale strage di innocenti che si consuma nel bosco, manco a dirlo innevato, di un paesino ai confini tra Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, dove entrambi vivono). Ebbene, sembra quasi che le condizioni meteorologiche di Val d’Isère, piccolissimo centro abitato sepolto da metri (davvero metri) di neve abbiano voluto rendermi la lettura del romanzo una sorta di esperienza del tipo “home theatre”. Smettevo di leggere il mio romanzo per andare al congresso e mi trovavo nella bufera, come il protagonista. Tutto uguale, si direbbe. Meno che io non faccio il parroco, e che lì mi ci trovavo per un congresso. Meno, inoltre, che anziché in una fumosa canonica risiedevo in un lussuoso chalet a 5 stelle, a due passi dalle piste da sci. Eppure, era lo stato d’animo a farmi vivere l’analogia. Questa settimana, la prima passata totalmente da solo  sin dal mio arrivo a Parigi (la mia fidanzata Olinka, è partita il 13) è stata per mia volontà una settimana di eremitaggio, mentale ancor prima che materiale (dalla metropoli al paesino di alta montagna, dove la strada che ti ci porta, arrivata lì si interrompe e non avanza più perché non c’è niente verso cui dirigersi). Una settimana, quindi di totale autosufficienza. Libertà di orario per mangiare, libertà di scegliere se sciare, dormire, passeggiare o quant’altro nelle pause di sei ore che interrompevano a metà ogni giornata congressuale (dalle 8:00 alle 11:00 relazioni- pausa fino alle 16:00 e poi relazioni fino alle 19-20). E in questa settimana, annoiandomi anche( a tratti, nei momenti morti anche perché per principio di autoconservazione ho deciso che non mi sarei provocato fratture multiple e scomposte/esposte, avventurandomi sugli sci), si può dire che sia davvero iniziata l’esperienza che mi aspettavo di vivere. L’esperienza della solitudine adulta, dell’indipendenza e dell’autonomia.Del doversi prendere anche cura di sé stessi. O di trascurarsi, se e quando se ne ha voglia. Ho mangiato panini, fois gras (nella cena della prima sera offerta in albergo ad alcuni partecipanti al congresso), bistecche ai ferri ed ancora panini o solo biscotti quando non ho avuto voglia di uscire per continuare a leggere o restarmene al calduccio semplicemente a non fare nulla. Già, fare nulla quando se ne ha voglia, che lusso! Tanto tempo per pensare, per ripensare a quello che ho lasciato dietro e che mi ritroverò davanti tra poco più di un mese. Il mio reparto, le mie abitudini ormai consolidate in questo anno di lavoro “aggratis”, fatto di 12 ore lavorative 5 giorni la settimana. Il mio ambiente, la mia quotidianità, i miei affetti. Mi sono sentito un po’ morire quando l’autobus che mi portava a Fiumicino ha iniziato a muoversi, e con un cenno ho salutato mia madre che si faceva evidentemente forza per non piangere ancora più evidentemente di quanto stesse già facendo. E ancora più forte è stata l’immediata consapevolezza di essere totalmente solo quando Olinka ha attraversato il gate dell’aeroporto per tornare a L’Aquila. Me lo sono proprio detto “caro mio, adesso qui sei proprio solo”, eppure in fin dei conti sono qui non ANCHE per questo, ma SOPRATTUTTO, per questo, direi. Nella mente di chi ha creato e reso possibili questi due mesi francesi c’era ovviamente l’obiettivo professionale, di una formazione che altrimenti sarebbe stato più difficile ricevere restando a casa. E posso, già ora considerarlo un obiettivo pienamente raggiunto già ora. Ora sono certo di ciò che finora vagamente sentivo nelle mie corde. Ora sono certo che è questo che voglio fare, che è l’angiografia che a me piace più di tutto, nella radiologia. Ma oltre l’obiettivo professionale io mi sono prefisso quello personale. Di partire ragazzo, e tornare in qualche modo “uomo”. Perlomeno “persona” che sa ciò che vuole e come riuscire a procurarselo. A costruirselo. Ed ho sempre pensato che per costruirsi qualcosa si debba anzitutto saper costruire sé stessi. In questo senso, vivere per la prima volta da solo è l’unico modo che riesco a immaginare per conoscermi davvero nelle mie inclinazioni e necessità. In questo senso apprezzo la mia solitudine, che è positiva. Anche perché ha un termine prefissato, ma non solo.

Cosa dire, poi dei francesi. Non lo posso ancora dire con certezza, ma non sembrano così antipatici come finora li avevo ricordati. Non c’è puzza sotto il naso, perlomeno non più che sotto i nasi di tanti aquilani perbene. Le nuove generazioni sembrano di sicuro molto diverse da quelle che le hanno precedute anche di pochi anni. Gli adulti sembrano più uniformati, tra loro; mentre i giovani dimostrano una maggiore individualità, anche solo guardandoli girare per strada o in metropolitana. A cominciare dal loro aspetto. Sembrano più inclini a divertirsi dei loro fratelli maggiori, nonostante abbia l’impressione che molti di loro spesso lavorino già. Li incontro, tutte le mattine, quando per raggiungere l’ospedale devo prendere da casa mia, a 5 minuti dalla Tour Eiffel, la M1 che mi porta alla Défense. Riconosci l’universitario dal giovane bancario / commercialista /impiegato del terziario. E ho realizzato per la prima volta, guardandoli, che anche qui non c’è nulla che permetta di distinguere il medico. Sarà che perché non utilizziamo praticamente mai sul lavoro i nostri abiti “di fuori”, ma i medici anche qui non si capisce mai quali siano. E poi passiamo all’argomento “ospedale”; l’Hopital Foch è immediatamente fuori la cintura urbana di Parigi, anche se non so per quanto tempo potrà restarne fuori, data l’enorme espansione della città che credo tra breve ingloberà anche Suresnes, dove il mio ospedale sorge. Un edificio in espansione, di una 30ina d’anni, che stanno demolendo a tratti, per ricostruirlo secondo canoni più moderni e funzionali. Il “Radio Bloc”, dove vado io, è nel pianterreno della vecchia ala, mentre tutta la parte diagnostica convenzionale è ospitata nell’ala nuova, ed è eccezionalmente bella. Ampi spazi, luce, colori moderni e macchinari all’avanguardia. Risonanze di primissima qualità, è un ospedale privato con una quantità imprecisata (ma alta) di posti letto, che nulla ha a che vedere con le nostre cliniche private. La prima differenza che ho notato con l’organizzazione italiana è sul numero di addetti ai lavori. Complessivamente nel reparto lavorano forse anche meno persone di quante se ne vedano da noi, ma il rapporto medici/paramedici è esattamente l’opposto che da noi. I medici, specializzandi (“Internes”) compresi, sono una netta minoranza e non è affatto un male. La conseguenza, infatti, di tutto ciò è che i medici possono anzi debbono fare i medici. E tutti gli altri hanno modo di fare il loro lavoro, che peraltro fanno con molta dedizione e un non comune senso del dovere. In venti giorni non ho avuto modo di assistere ad una sola occasione di discussione, nonostante i ritmi siano serrati per tutti. Si percepisce che le regole del lavoro siano molto chiare per tutti, e nonostante questo sono accettate. La principale differenza è però dovuta, credo, all’estrema selezione che ognuno deve subire durante il suo percorso di formazione. Le università non fanno sconti, gli esami sono veri, e molto selettivi. Se vuoi davvero fare un lavoro specializzato, ci devi stare. E sai che anche i tuoi pari hanno fatto pari fatica. Immagino, quindi, che a questo sia dovuto il rispetto che percepisco non solo tra colleghi, ma anche verso di me. Mi astengo da ulteriori commenti a tal riguardo.  Vale sempre la vecchia regola che quando il “nemico” (tra virgolette, per carità!!) non può ascoltarti, può sempre leggerti. Soprattutto quando hai un blog a cui raccontare la tua vita, e quello che indipendentemente dalle convenienze e dai “lecchinismi” sei e vuoi continuare ad essere.

Mancano ancora 4 ore al mio arrivo a Parigi, la neve ha ceduto il passo ad una campagna bagnata ed anche un po’ anonima, nonostante siamo nei pressi di Albertville (olimpiadi invernali?). Ho tempo per finire il libro, vedere un film, e decidere se pubblicare al mio ritorno a casa (e alla civiltà dell’ADSL) questo mio post.

— 20:30, Parigi. Arrivato con mezz’ora d’anticipo (!!!), ho riletto, approvato e pubblicato senza apporre modifiche alla stesura originale. Buona la prima.

Share





L’EFFETTO CHE FA

31 12 2011

C’è più d’una valida ragione per aggiungere due nuove righe a questo diario.
Non solo perché un anno si sta concludendo,anzi: da sempre non amo i festeggiamenti del 31 Dicembre che mi inducono un sentimento misto all’ansia e alla più profonda tristezza, nelle ore immediatamente precedenti la mezzanotte. Stavolta, però il prossimo anno comincia con un evento importante. Senza dubbio per me uno dei più importanti degli ultimi anni. Vado a vivere a Parigi per lavoro, e ci resterò fino a marzo. La prima volta che vado a vivere da solo, e per di più a 1500 km da casa. La sesta volta che torno a Parigi, ma la prima dopo il terremoto. Solo negli ultimi giorni, con l’avvicinarsi della partenza mi sono accorto di quante cose avvertirò la mancanza. E non mi riferisco solo alla vicinanza della mia ragazza, della famiglia, delle amicizie. E’ paradossalmente anche di questa dura realtà che ora, a due giorni scarsi dalla partenza, sento di avvertire la mancanza. Perché di fatto sento di vivere in un ambiente opprimente ma in qualche modo “protetto” in senso lato. Come se negli ultimi due anni e mezzo intorno a L’Aquila e a noi superstiti il bozzolo che ci avvolgeva da decenni si fosse ancora più infittito lasciandoci in uno stato d’animo (e di fatto) paragonabile a quello di un’ enclave. Una riserva “indiana”. Siamo rimasti tra noi, avvolti dalla nostra realtà atipica e vuota, priva di tutto ciò che riempie le vite delle normali cittadine d’Italia e del mondo. Ridotti a vivere in casa (o C.A.S.A./M.A.P), è come si avessimo perso (o sopito?) i “sensi” propri di ogni animale sociale. Conduco una vita ristretta in pochi spazi( C.A.S.A/lavoro) da più di due anni, e tutto ad un tratto mi trovo proiettato in una città come Parigi. Il misto di eccitazione ed ansia che ne deriva non è solo dovuto alla novità, ne sono convinto.
E’ come se avessi timore di abituarmi troppo in fretta all’oceano di opportunità che mi si pareranno di fronte, per poi dover di nuovo dopo soli due mesi imparare nuovamente a reinserirmi in una realtà depressa come quella Aquilana. Mi piacerebbe poter inaugurare una sezione temporanea del blog nella quale raccontare le impressioni di questa nuova vita “a scadenza”. Una specie di diario sperimentale, per vedere cosa viene fuori e cosa ne penserò una volta tornato qui, tra le mie montagne ed i miei mucchi di sassi.
Dal momento che ad ogni fine d’anno tutti si abbandonano ai buoni propositi per l’anno che verrà, voglio chiudere con l’augurio che in questo preciso istante mi sento più adatto: che una volta trovata la via per andare via di qui, non costi troppa fatica dover ripercorrere la strada al contrario.
In fin dei conti vado solo ad affacciarmi in una vita normale. Per vedere l’effetto che fa.